Mantenimento al coniuge per l’elevato tenore di vita durante il matrimonio

mantenimento al coniuge

Nel mantenimento al coniuge, per esempio, l’ex moglie deve versare 2.000 euro mensili al marito disoccupato

A dover farsi carico del mantenimento al coniuge più debole, dopo la separazione, è tipicamente il marito: questo perché sono le donne in generale, almeno nel nostro paese, a farsi maggiormente carico della famiglia e spesso a dover lasciare il lavoro o a rinunciare alle proprie aspirazioni professionali per motivi familiari.

Per questa ragione spesso sono le donne le destinatarie dell’assegno di mantenimento: non è però sempre così, esistono le eccezioni, e a volte possono essere clamorose.

Un mantenimento da 2000 euro per il marito dopo il divorzio

La Corte di Cassazione si è trovata ad esaminare il caso della separazione di due coniugi, dove la moglie rappresentava il lato economicamente forte della coppia in virtù dei suoi introiti: con la separazione al marito venivano concessi 500 euro mensili, una misura che lui contestava in appello ritenendola insufficiente a mantenere lo stile di vita precedente alla separazione.

In Appello venivano riconosciuti al marito prima 800 euro mensili, in seguito al licenziamento di lui dall’azienda dove lavorava e la conseguente messa in mobilità, e poi dopo la sentenza di divorzio la cifra veniva fissata a 2.000 euro di mantenimento al coniuge da parte dell’ex moglie.

La moglie ricorreva in Cassazione contro il provvedimento, spiegando le sue ragioni: affermava infatti che la sua disponibilità economica era riconducibile ad una grossa somma posseduta su un conto in banca (circa 3 milioni di euro a cui aveva accesso anche suo padre) e che oltre a quella cifra lei non aveva redditi fissi essendo una casalinga disoccupata che doveva mantenere interamente anche i due figli nati dal matrimonio.

La donna faceva quindi notare che la cifra conservata in banca era destinata solo a diminuire e le sarebbe dovuta bastare al sostentamento per tutta la sua vita: inoltre accusava l’ex marito di non essere stato licenziato ma di aver chiesto di entrare in mobilità e faceva presente che lui poteva contare su entrate economiche dovute al lavoro -saltuario- come disc jockey.

Nonostante le obiezioni sollevate, la Cassazione respingeva ogni ricorso e confermava alla donna l’obbligo di provvedere al mantenimento al coniuge, sostenendo comunque il principio che il tenore di vita dopo la separazione dovesse rispecchiare quello precedente e contestando la mancanza di prove sulla reale occupazione -o disoccupazione- dell’ex marito.

Assegno di mantenimento al coniuge: come viene calcolato

Il mantenimento al coniuge è dovuto laddove ne sia stata fatta richiesta ed esistano i presupposti per ottenerlo: il coniuge richiedente deve dimostrare di essere la parte debole economicamente della coppia e di non essere in grado di sostenere sé stesso, mantenendo lo stesso livello di vita goduto dopo il matrimonio.

Il mantenimento viene dunque calcolato tenendo presenti i proventi dell’attività lavorativa e altre fonti di ricchezza sia del richiedente che del coniuge che deve farsene carico: viene valutata anche la capacità e l’attitudine al lavoro del richiedente, partendo dall’età, l’esperienza lavorativa, le condizioni di salute e il tempo che è intercorso dall’ultima prestazione di lavoro.

Inoltre il giudice verifica se i mezzi economici a disposizione del richiedente possano consentire di mantenere un livello di vita simile al precedente indipendentemente dalla percezione dell’assegno: se così non è, deciderà l’importo dell’assegno cercando di equilibrare le esigenze.

 

 

 

Eredità dei figli: a chi va tra figli adottivi, legittimi e naturali?

eredità dei figli

Eliminata anche in materia di eredità dei figli la differenza tra figli legittimi e naturali

Nel caso in cui un genitore muoia senza lasciare un testamento nel quale esprime le sue volontà, come si divide l’eredità dei figli?

La legge italiana stabilisce delle regole molto rigide per quanto riguarda la successione; infatti, anche in presenza di un testamento sono previste delle quote legittime, che spettano ai parenti più prossimi del defunto, che sono il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e altri parenti.

L’ammontare, quindi, dell’eredità dei figli, dipende dalla presenza del coniuge del defunto.

Se il defunto non lascia alcun testamento (o il testamento è invalido), la successione si dice “totalmente legittima”, perché è solo la legge a stabilire quali sono gli eredi; con il coniuge i parenti più prossimi sono i figli, ed eventualmente i nipoti che succedono per rappresentazione.

Calcolo dell’eredità dei figli

La successione legittima e le relative quote in favore dei figli si calcolano in base al numero di figli e in base alla presenza del coniuge.

Ad esempio:

  • Se non c’è il coniuge e c’è un solo figlio a lui spetta l’intera eredità;
  • Se non c’è il coniuge e ci sono più figli l’eredità deve essere divisa in parti uguali tra di loro;
  • Se ci sono il coniuge e un figlio, al primo spetta ½ e l’altro ½ al figlio;
  • Se ci sono il coniuge e due o più figli al primo spetta 1/3 e i restanti 2/3 vanno divisi tra i figli egualmente.

Ma c’è una differenza tra figli adottivi, legittimi e naturali?

Fino a non molto tempo fa il Codice civile nel disciplinare la successione poneva delle differenza nell’eredità ai figli, distinguendo quelli legittimi (nati all’interno di un matrimonio), quelli naturali (nati al di fuori del matrimonio).

Il decreto legislativo 154/2013, in materia di filiazione, ha abolito in modo definitivo ogni genere di distinzione tra i figli: infatti la legge ora parla solo di “figlio” senza discriminazioni.

Il legislatore già precedentemente aveva eliminato le differenze che c’erano tra figli nati dentro e fuori il matrimonio; infatti, con la legge del 10 dicembre 2012 n. 219 era stato già introdotto il principio della piena uguaglianza tra figli legittimi e naturali, che erano stati equiparati anche per quel che riguarda l’eredità e la successione dei genitori.

E per quanto riguarda l’eredità dei figli incestuosi?

Ai figli frutto di incesto (nati tra genitori legati da un rapporto di parentela), l’art. 580 del Codice civile, riconosceva solo il diritto a un assegno vitalizio, pari alla rendita della quota di eredità a cui avrebbero avuto diritto; questo perché i figli incestuosi non potevano essere riconosciuti, divieto poi rimosso dalla Legge 219/2012.

 

 

Amministrazione dei beni del minore: quali sono le cure e come funziona

amministrazione dei beni del minore

Con quali atti e modalità i genitori possono gestire i beni del figlio minorenne

Nel nostro ordinamento giuridico il minore non è capace di agire, ma non è privo della capacità giuridica; questo comporta che possa diventare titolare di diritti su dei beni, o che sorga la necessità che debba essere rappresentato per il compimento di alcune attività giuridiche.

Per l’amministrazione dei beni del minore è necessario, infatti, che se ne occupino i genitori (se presenti), che in modo congiunto esercitano la responsabilità genitoriale, o quello dei due che la esercita in via esclusiva.

A sancire questo è l’articolo 320 del Codice civile, ce recita così: “i genitori congiuntamente, o quello che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri, fino alla maggiore età o all’emancipazione, in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni.”

E’ necessario però puntualizzare il potere/dovere che hanno i genitori sulla rappresentanza e amministrazione dei beni del minore:

  • Possono essere compiuti da un solo genitore solo gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, che possono invece essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore;
  • Se si presenta un disaccordo tra i genitori circa il compimento di un atto, o quando le decisioni dei genitori, prese di comune accordo, siano poi esercitate in maniera difforme, è possibile rivolgersi al tribunale secondo quanto dispone l’art. 316 (viste le regole previste in caso di contrasti nell’esercizio della responsabilità genitoriale.)

Per quanto riguarda invece l’amministrazione dei beni del minore che riguardano atti di straordinaria amministrazione, la situazione è più complicata.

Per gli atti rilevanti non è possibile l’esercizio disgiunto dei genitori, ma anche le decisioni prese di comune accordo tra i genitori dovranno rispettare altri requisiti; infatti, i genitori solo in presenza di queste due condizioni

  • Necessità o utilità evidente del figlio;
  • Previa autorizzazione concessa dal giudice tutelare.

Possono:

  • Alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte;
  • Accettare o rinunciare ad eredità o legati, e accettare donazioni;
  • Decidere lo scioglimento di comunioni;
  • Contrarre mutui o locazioni ultra novennali;
  • Compiere altri atti eccedenti la ordinaria amministrazione;
  • Promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti,

I genitori che si occupano dell’amministrazione dei beni del minore, possono svolgere quindi, senza autorizzazione del Giudice tutelare, solo atti di ordinaria amministrazione.

Alcuni atti sono addirittura vietati ai genitori del minore:

  • Acquistare direttamente o per interposta persona dei beni e dei diritti del minore, neanche all’asta pubblica;
  • Diventare cessionari di alcuna ragione o credito verso il minore.

Comunione convenzionale dei beni e comunione legale: la differenza

comunione convenzionale dei beni

I due regimi sono simili, ma con alcune differenze fondamentali

La comunione legale dei beni è quel regime patrimoniale che si instaura con il matrimonio laddove non venga specificata una volontà diversa degli sposi: questa consuetudine è in atto dal 1975, quando con la riforma è stata equiparata la posizione patrimoniale dei coniugi.

La comunione legale non è però l’unica scelta a disposizione degli sposi: possono optare per la comunione convenzionale dei beni o per la separazione dei beni.

La comunione dei beni

In linea generale, rientrano nella comunione dei beni tutti i beni acquistati dai coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, i proventi dell’attività lavorativa di ciascun coniuge e le aziende gestite da tutti e due e costituite dopo il matrimonio, così come i beni comprati con il denaro di un solo coniuge. Non rientrano nella comunione, al contrario, i beni personali e che i coniugi ricevono per donazione e eredità, oppure che sono stati acquistati prima delle nozze. Il regime di comunione dei beni può essere modificato o sciolto per volontà dei coniugi, questo accade automaticamente in caso di morte dei uno dei due. La comunione dei beni va sempre amministrata congiuntamente, fatta eccezione per l’ordinaria amministrazione.

La comunione convenzionale dei beni

La scelta della comunione convenzionale dei beni può essere vista come una via di mezzo fra comunione e separazione. Con questo regime, infatti, i coniugi accettano la comunione dei beni ma decidono di regolarla tramite un atto notarile. Questa forma patrimoniale infatti ha un carattere convenzionale in quanto è il risultato di una volontà espressa da tutte e due le parti.

Questo atto di comunione convenzionale dei beni si stipula per indicare e disciplinare in modo dettagliato quali beni rientrano nella comunione e quali no. Con questo atto i coniugi hanno una libertà maggiore di inclusione ed esclusione dalla comunione dei beni, ma con alcuni punti fermi: l’amministrazione della comunione convenzionale spetta comunque ad entrambe e le quote dei due coniugi sono divise al 50%.

Restano comunque escluse dalla comunione convenzionale dei beni:

  • Beni di uso personale di ciascun coniuge
  • Beni connessi con lo svolgimento della professione
  • Beni che vengono ottenuti come risarcimento di un danno
  • Pensione che viene percepita per la perdita totale o parziale della capacità lavorativa.

Differenze fra comunione dei beni e comunione convenzionale dei beni

Le differenze fra comunione e comunione convenzionale dei beni non sono poi così accentuate: quella fondamentale è che la comunione dei beni si instaura automaticamente al momento del matrimonio, se non diversamente indicato, mentre perché una comunione convenzionale dei beni sia valida questa deve essere stabilita con un atto pubblico e di fronte al notaio.

Fatte salve poi alcune categorie di beni (quelli personali, legati alla professione o provenienti da pensioni di invalidità o risarcimenti), la comunione convenzionale è utile per far ricadere nella comunione dei beni anche quelli che erano di proprietà di uno dei due coniugi prima del matrimonio o i redditi, comunque prodotti, di entrambe durante la vita matrimoniale.

La procedura di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale

delibazione delle sentenze ecclesiastiche

Quando è possibile trascrivere una sentenza di nullità in Italia

Che cos’è la delibazione

 Con il termine «delibazione» si intende la procedura giudiziaria tramite cui in uno Stato viene concessa, dietro domanda specifica, efficacia giuridica ad un provvedimento giudiziario emesso da un altro Stato.

A questa procedura possono essere sottoposte anche le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, che vengono emesse dall’ordinamento giudiziario canonico.

Secondo l’art. 8, n. 2 del Concordato fra Chiesa e Stato infatti, la sentenza ecclesiastica di nullità di un matrimonio concordatario acquista validità nella Repubblica Italiana solo dietro domanda congiunta dei coniugi (o uno di essi), da inoltrarsi alla Corte di Appello.

Domanda di delibazione delle sentenze ecclesiastiche

Le domande di delibazione delle sentenze ecclesiastiche devono essere redatte da un procuratore legale e richiedono la presenza di due presupposti indispensabili:

  • La duplice pronuncia di nullità del matrimonio, che risulti da due uguali decisioni giudiziali emanate in ambito ecclesiastico che dichiarano la nullità del matrimonio,
  • Il decreto di esecutività, rilasciato dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, organo di controllo dell’attività giudiziaria ecclesiastica, che testimonia l’esecutività della pronuncia.

La domanda deve essere presentata alla Corte d’Appello competente per territorialità, basandosi sul comune in cui è stato celebrato il matrimonio.

Prima di rilasciare le sentenze di delibazione la Corte d’Appello effettua alcune indagini.

In particolare:

  • Accerta l’esistenza e l’autenticità delle due pronunce di nullità del matrimonio e del decreto successivo rilasciato dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica;
  • Accerta che il matrimonio dichiarato nullo fosse un matrimonio canonico trascritto ai fini civili (quindi un matrimonio cosiddetto concordatario)
  • Accerta che la validità e l’efficacia del procedimento di fronte tribunale ecclesiastico,
  • Accerta che siano soddisfatte anche le condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere:
  1. Assenza di una sentenza passata in giudicato contrastante con quella ecclesiastica
  2. Non esista un giudizio pendente davanti ad un giudice italiano fra le stesse parti con lo stesso oggetto, cioè la richiesta di nullità
  • Assenza di incompatibilità fra la sentenza ecclesiastica e l’ordine pubblico italiano
  • Stabilisce che, una volta resa esecutiva la sentenza nell’ordinamento italiano, il coniuge ritenuto in buona fede possa usufruire di provvedimenti economici provvisori

Effetti della sentenza di delibazione

La delibazione delle sentenze ecclesiastiche fa venir meno gli effetti civili del matrimonio canonico fin dal giorno della celebrazione (restano intoccabili e impregiudicati gli eventuali rapporti di filiazione e gli obblighi ad essi collegati).

Viene meno dunque anche la necessità di fare domanda di divorzio, almeno che esso non fosse già stato sancito.

In questo caso restano invariati gli effetti patrimoniali e personali decisi in sede di divorzio.

La sentenza di delibazione delle sentenze ecclesiastiche non è invece possibile quando si parla di matrimonio rato e non consumato (si tratta di un matrimonio giuridicamente valido tra due persone battezzate a cui non sia però seguito un atto coniugale finalizzato alla generazione della prole) poiché in quel caso si tratta di provvedimenti discrezionali, emessi con procedimento amministrativo e non giudiziario, nei quali non vengono ravvisate le garanzie basilari giurisdizionali sancite dalla Costituzione italiana.

 

 

 

 

Se lui è Il facoltoso professionista deve mantenere la propria ex anche se lei fa spese di lusso

mantenimento spese di lusso della ex moglie

Determinante la disparità economica comunque esistente fra i due ex coniugi

L’assegno di mantenimento è uno strumento messo a disposizione dalla legge per tutelare il coniuge più debole economicamente in caso di separazione e divorzio: viene calcolato in misura proporzionale allo stipendio del coniuge più abbiente e in linea di principio dovrebbe assicurare alla persona che lo percepisce di riuscire a mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva durante la vita matrimoniale.

Questo per impedire che il soggetto più debole, appunto, sia costretto a rimanere sposato temendo di non avere più assicurata la sussistenza o il tenore di vita al quale è abituato.

Sono essenzialmente due i principi su cui si basa l’erogazione dell’assegno di mantenimento: come detto, la conservazione di uno stile di vita simile a quello matrimoniale e la disparità economica fra i due coniugi.

Quando queste condizioni sono presenti, l’assegno viene attribuito ed è passibile di aggiustamenti in base alle modifiche della situazione patrimoniale degli ex coniugi.

Anche se l’ex moglie è ricca ha diritto all’assegno di mantenimento

La Corte di Cassazione, con la sentenza 1154/2015, ha dimostrato come le due condizioni sopra nominate siano molto importanti anche quando apparentemente la situazione è diversa: una donna si è vista negare l’assegno di mantenimento dopo il divorzio perché, secondo i giudici di merito, il suo stipendio le permetteva di mantenersi senza aiuti da parte del marito.

La donna percepiva infatti uno stipendio di 1200 euro, era l’assegnataria della casa coniugale e aveva recentemente comprato con il suo stipendio una macchina nuova ed uno scooter: i giudici territoriali avevano quindi disposto che il padre contribuisse economicamente ai bisogni dei due figli ma non a quelli della moglie, giudicata autonoma.

L’ex moglie ricorreva quindi alla Corte di Cassazione rivendicando il suo diritto all’assegno di mantenimento: e la Corte le dava ragione in virtù della disparità economica esistente fra lei e l’ex marito.

Il fatto che lei guadagnasse un buon stipendio e vivesse nella casa coniugale (di proprietà dei genitori di lui) non era importante a paragone dell’importante disparità economica presente fra lei e l’ex marito, un libero professionista con una capacità economica molto elevata.

Per questa ragione il ricorso della signora veniva accettato e la sentenza di primo grado annullata.

Assegno di mantenimento: quando spetta e quando no

Il diritto all’assegno di mantenimento decade quando ad uno dei due coniugi viene addebitata la separazione, oppure quando si risposa.

Inoltre, sono sempre possibili revisioni basate su modifiche sensibili delle capacità economiche di uno o dell’altro coniuge: miglioramenti o decadimenti della situazione monetaria possono dare luogo a conseguenti modifiche.

In alcuni casi basta anche una convivenza more uxorio a far perdere il diritto all’assegno di mantenimento: è però necessario dimostrare che la nuova famiglia di fatto creata dall’ex coniuge sia una famiglia a tutti gli effetti, basata su principi e valori simili a quella della famiglia legittima, e che abbia portato alla rescissione dei legami con la precedente vita familiare.

Cosa succede ai figli adottati quando la coppia si separa

Cosa succede ai figli adottati quando la coppia si separa

Tranne che in casi particolari valgono le stesse disposizioni per tutti i figli, adottati e non

La separazione della coppia porta sempre molto scompiglio all’interno della famiglia, soprattutto provoca sofferenza per i figli che devono affrontare un cambiamento radicale nelle loro abitudini di vita.

Il periodo della separazione è un momento molto delicato perché determina il verificarsi o meno del successivo divorzio; la legge italiana, infatti, prevede questo tempo per dar modo alla coppia di riflettere e capire se è possibile una riconciliazione; i tempi previsti si sono ultimamente ridotti con l’entrata in vigore della legge sul divorzio breve.

Cosa succede ai figli adottati?

Partiamo dal presupposto che tutti i figli godono degli stessi diritti e vengono trattati nello stesso modo in caso di separazione dei genitori, che siano figli adottivi o meno.

In questo caso, infatti, non è l’adozione a fare la differenza; i problemi che la famiglia dovrà affrontare sono gli stessi che affrontano le famiglie che hanno avuto dei figli in modo “naturale”; il legame di sangue, così come la provenienza culturale del bambino adottato, non importa, come invece il legame che ha stabilito con i genitori o con uno di essi, che influisce in modo determinante.

L’unica differenza la troviamo in un caso specifico: la Corte di Cassazione ha accolto, infatti, la domanda promossa da un coniuge separato di revocare il decreto che aveva disposto l’adozione del figlio; dobbiamo sottolineare però che la revoca non viene disposta d’ufficio, ma deve essere sempre richiesta da uno dei due genitori, oppure su iniziativa di un Pubblico Ministero, o degli assistenti sociali che devono monitorare l’andamento dei rapporti tra genitori adottanti e adottati.

Nella normalità, in caso di separazione della coppia, il figlio adottato si troverà a dover essere affidato in modo congiunto a entrambi i genitori, o in modo esclusivo a uno dei due.

Vediamo le differenze tra i due tipi di affidamento.

Affidamento condiviso

La regola fondamentale dell’affidamento condiviso è stata disposta dalla legge n.54 del 2006, e il presupposto è quello dell’assenza di “conflittualità insanabili” tra genitori, che quindi permette la presenza di armonia.

In questo tipo di affidamento i figli hanno il diritto di conservare un rapporto equilibrato con entrambi i genitori; infatti, anche se il Giudice decide dove deve vivere stabilmente la prole, tutti e due le parti partecipano alle decisioni che la riguardano, e non si parla più di “diritto di visita”, ma presenza presso l’uno e l’altro genitore.

Affidamento esclusivo
In caso di separazione della coppia, anche per i figli adottivi è possibile disporre questo tipo di affidamento, ma solo in situazioni particolari.

Questo prevede che il genitore cui sono affidati i figli eserciti in via esclusiva la responsabilità genitoriale, salvo diverse disposizioni, anche se le decisioni di maggior interesse sono generalmente prese di comune accordo.

Il genitore non affidatario deve vigilare sull’istruzione e l’educazione della prole e può ricorrere anche al Giudice quando lo ritiene opportuno.

Addebito della separazione al marito traditore

addebito della separazione al marito traditore

L’addebito della separazione al marito traditore è valido quando l’infedeltà causa la crisi

Sarebbe scontato supporre che l’infedeltà coniugale sia uno dei principali motivi che porta alla separazione con addebito ai danni dell’infedele: nonostante questo sia in linea di massima corretto, a volte i giudici (sia di merito che in Cassazione) hanno respinto richieste di addebiti per infedeltà.

Questo perché in realtà, per ottenere l’addebito della separazione al marito traditore è necessario che il tradimento effettivo sia stato consumato in un periodo compatibile alla crisi di coppia e che possa essere quindi stabilito con certezza che sia il motivo della fine del matrimonio.

Per determinare infatti l’effettivo addebito, va dimostrato che l’intollerabilità della convivenza (elemento alla base della separazione) sia ascrivibile senza dubbio all’infedeltà coniugale.

Il tradimento davanti alla legge: quando è riconosciuto l’addebito

La Corte di Cassazione in passato ha già considerato il tradimento come una forma dell’espressione della libertà personale di autodeterminazione nelle relazioni amorose, tutelata dall’articolo 2 della Costituzione: nel caso in cui si deliberava su quel particolare frangente, però, si parlava di persone fidanzate e non ancora sposate (sentenza n. 11467/2015)

Sebbene quindi la crisi matrimoniale non possa essere imputata in automatico all’infedeltà, ci sono alcuni casi in cui la condotta del fedifrago è abbastanza evidente da portare ad un addebito della separazione al marito traditore.

E’ il caso affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5108/ 2015: un ex marito si lamentava per l’addebito della separazione in quanto era stato sì infedele, ma anni prima che si verificasse la separazione.

L’uomo cercava quindi di smontare il nesso causale fra tradimento e separazione che era alla base della richiesta dell’ex moglie.

In questo caso però l’addebito della separazione al marito traditore è stata confermata: la Cassazione ha ritenuto giuste le considerazioni dei giudici di merito sulla colpevolezza del marito, anche perché era stato dimostrato, in sede di dibattimento, che anche poco prima della separazione l’uomo aveva tentato un approccio con un’altra donna fornendo false generalità.

Fatale al ricorrente, in questo caso, la certificata condotta di “habitué” del tradimento: se la scappatella coniugale è un modus vivendi, in altre parole, il nesso causale di cui la Corte ha bisogno per stabilire l’addebito della separazione al marito traditore è servito su un piatto d’argento.

Rapporti di causa-effetto nelle crisi matrimoniali

In altri casi, al contrario, la Cassazione ha dato ragione a mariti che erano riusciti a dimostrare che l’infedeltà era l’effetto e non la causa della crisi matrimoniale.

Di base l’addebito scatta quando si riesce a dimostrare che il matrimonio è finito perché uno dei due coniugi è contravvenuto ad uno degli obblighi sanciti dal patto matrimoniale e che questo è stato il motivo della crisi matrimoniale: non serve arrivare all’infedeltà, è anche sufficiente riuscire a certificare comportamenti ingiusti e vessatori, che fanno venire meno il patto di solidarietà morale stipulato fra i due coniugi.

Divorzio giudiziale

divorzio giudiziale

Quando i due coniugi non trovano un accordo si ricorre al procedimento di divorzio giudiziale

Quando i due coniugi non trovano un accordo su tutte le condizioni di divorzio, patrimoniali e non solo, oppure quando uno dei due coniugi non ha intenzione di concedere all’altro coniuge il divorzio, si rende necessaria l’instaurazione di un procedimento di divorzio giudiziale presso il Tribunale di riferimento.

Come nel caso della separazione giudiziale, il divorzio giudiziale si avvia nel momento in cui le due parti non riescono a raggiungere un accordo, cosa che invece accade nel divorzio congiunto o consensuale.

Il motivo del mancato accordo risiede molto spesso nelle diverse esigenze e richieste in materia di mantenimento del coniuge più debole, affidamento e mantenimento dei figli, assegnazione della casa familiare, divisione dei beni residui, ecc.

Si procede con il divorzio giudiziale anche nel caso di un coniuge intenzionato a porre fine al matrimonio in disaccordo con l’altra parte.

In tale caso il primo procede alla presentazione della domanda di divorzio al giudice competente e con l’assistenza di un legale cita in Tribunale il coniuge opponente, chiedendo al Giudice di deliberare sulle domande e questioni proposte.

Tempi del divorzio giudiziale

Rispetto alla procedura di divorzio congiunto, che trova compimento solitamente nel giro di 4 mesi dal deposito della domanda, il divorzio giudiziale ha una durata mediamente maggiore, a seconda della conflittualità dei coniugi e del carico di lavoro del Tribunale.

In alcuni casi si può concludere anche alla prima udienza, se il Giudice accetta tutte le richieste effettuate da una delle parti.

In linea di massima però si tratta di una vera e propria causa civile che, mediamente, dura fino a uno o due anni.

La domanda di divorzio

La richiesta di divorzio giudiziale o contenzioso può essere presentata nel momento in cui sussiste uno dei casi previsti dalla Legge sul Divorzio, quando si è di fronte all’impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione spirituale o materiale fra i coniugi.

La domanda di divorzio giudiziale deve contenere:

  • l’esposizione dei fatti ed elementi di diritto sui quali si fonda la domanda;
  • il riferimento a figli di entrambi i coniugi;
  • la richiesta di assunzione di eventuali mezzi di prova (prova testimoniale, perizia, ecc.);
  • le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni di entrambi i coniugi;
  • l’estratto per riassunto dell’atto di matrimonio;
  • il certificato di residenza e lo stato di famiglia di entrambi i coniugi;
  • la copia autentica del provvedimento conclusivo del procedimento di separazione;

Una volta ricevuta la domanda il presidente del Tribunale di riferimento fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione dei coniugi, durante la quale cercherà di conciliare le parti per giungere ad un accordo di massima.

Qualora la conciliazione fallisca viene designato il Giudice Istruttore e fissata la data della nuova udienza di fronte a quest’ultimo.

Inizia così la fase istruttoria che si conclude con una sentenza impugnabile in appello, dove le condizioni di divorzio possono venire modificate o annullate.

 

Addebito della separazione al coniuge dispotico

addebito della separazione

Un atteggiamento che infrange l’affectio coniugalis è sufficiente a causare l’addebito della separazione

Se in una coppia il marito vuole comandare, è prepotente anche sul lavoro e vuole avere sempre l’ultima parola, la moglie può ottenere che l’addebito della separazione ricada su di lui: è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 8094/2015.

Il caso specifico riguarda due coniugi che gestivano insieme anche un’attività commerciale: quando hanno deciso di mettere fine al matrimonio lei ha chiesto l’addebito della separazione al marito, adducendo come causa il suo comportamento dispotico sul lavoro, dove le impediva di prendere alcuna decisione finendo, nei fatti, a gestire da solo questa attività.

I giudici di merito hanno dato torto, ma quando la donna ha presentato ricorso davanti alla Corte di Cassazione, questo è stato accolto.

La Cassazione ha infatti ricordato che alla base della vita familiare deve esserci collaborazione e accordo reciproco e che se i coniugi gestiscono insieme un’attività economica dalla quale traggono i mezzi di sostentamento della famiglia, sono tenuti a collaborare in posizione paritaria, collaborando di comune accordo e senza prevaricazioni di un coniuge sull’altro.

L’atteggiamento del marito, che invece assumeva un comportamento dispotico che alla lunga ha contribuito a infrangere l’affectio coniugalis, è stato visto dalla Corte anche come un tentativo di approfittarsi della posizione di dipendenza psicologica della moglie.

Per questo la Cassazione ha deciso di dare ragione alla donna e imputare al marito la separazione con addebito.

Addebito della separazione: di che si tratta

L’addebito della separazione consiste nell’accertamento, in fase giudiziale, che il matrimonio è finito per colpa dei comportamenti di uno dei coniugi, che è contravvenuto ai doveri coniugali previsti dall’art. 143 del Codice Civile (fedeltà reciproca, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione).

Nel caso affrontato prima, è stato sufficiente che il marito non adempisse al dovere dell’assistenza morale, trattando la moglie in modo prepotente e dispotico, per far decidere alla Corte di Cassazione di addebitare a lui la separazione.

Per imputare l’addebito della separazione ad uno dei coniugi è comunque necessario che il comportamento incriminato sia iniziato prima della fine della relazione e che esista un dimostrabile rapporto di causa-effetto fra la condotta del coniuge e la sopraggiunta intollerabilità della convivenza.

Le conseguenze dell’addebito della separazione sono di carattere prevalentemente patrimoniale: il coniuge ritenuto “colpevole” non potrà godere dell’assegno di mantenimento ma soltanto degli alimenti (che spettano solo in caso di bisogno alimentare, mentre il mantenimento è volto a mantenere, per l’appunto, il tenore di vita della vita matrimoniale).

Inoltre il coniuge a cui è stato addebitato l’addebito della separazione perde anche i diritti successori nei confronti dell’altro: anche in questo caso però, se godeva degli alimentai legali da parte del coniuge defunto, avrà comunque diritto ad un assegno vitalizio che verrà sottratto all’eredità.

Se invece la separazione non viene effettuata con addebito, il coniuge che rimane in vita ha gli stessi diritti ereditari del nuovo eventuale coniuge del defunto.