Permesso di soggiorno: quando l’immigrato sposato in Italia e non più convivente ne ha diritto

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La Corte di Cassazione ha ribaltato le due sentenze precedenti che avevano rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno

La Corte di Cassazione si è spesso occupata in questi ultimi anni di questioni che riguardano la concessione del permesso di soggiorno agli immigrati, in particolare di quello che si rilascia per questioni familiari.

Il Governo italiano prevede, infatti, di concederlo secondo gli articoli 29 e 30 del Decreto Legislativo n. 286/98 e successive modifiche, ai membri della stessa famiglia, che possono richiedere il permesso di soggiorno secondo alcune condizioni, e dopo aver dimostrato di essere in possesso di tutti i documenti necessari.

Uno dei motivi per i quali si concede il permesso di rimanere nel nostro paese, è relativo alla coesione familiare, quindi al matrimonio, con un cittadino italiano, un membro dello Stato della Comunità Europea, oppure con uno straniero in possesso della carta di soggiorno per stranieri.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha emesso un’interessante sentenza, dopo aver esaminato una questione riguardante il permesso di soggiorno negato ad una cittadina australiana, sposata con un italiano, ma non più convivente con quest’ultimo, perché deceduto.

Alla cittadina straniera era stato infatti negato dal Tribunale di Verona, il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, concesso nel 2006 a seguito del matrimonio con l’uomo italiano.

Il Tribunale ha però poi rifiutato il ricorso della donna, e inoltre, la Corte d’Appello di Venezia, ha confermato anche la sentenza di primo grado sul rilievo, perché mancava il requisito della convivenza tra i coniugi, ritenuto quindi di fondamentale importanza per concedere il rinnovo del per permesso di soggiorno, relativo a questioni familiari.

La donna australiana, trovandosi costretta, dopo il rifiuto, si è rivolta alla Corte di Cassazione, che ha ribaltato le sentenze precedenti dei Tribunali cittadini.

La sentenza si è rivelata, infatti, a favore della cittadina straniera, e per diversi motivi: il primo riguarda la mancata applicazione del decreto legislativo n.30 del 2007, che consente di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno al coniuge di un cittadino dell’Unione Europea, sulla base della durata del matrimonio, che deve essere superiore ai 3 anni; il secondo riguarda invece la scorrettezza riscontrata nei confronti della donna, per non aver almeno convertito il permesso concesso in precedenza per  motivi familiari, in permesso concesso per lavoro subordinato, considerando che la donna lavorava regolarmente nel nostro paese come badante.

Oltre a queste motivazioni valide, la Corte di Cassazione ha stabilito che lo stato di vedova non può essere paragonato a quello di donna divorziata: di conseguenza il requisito della convivenza, in caso di morte del coniuge, non doveva essere richiesto ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno.

Assegno divorzile: linee guida per determinarlo

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I presupposti per il versamento dell’assegno divorzile e circostanze particolari

La Cassazione, con un’ordinanza del 27 maggio 2014, ha affrontato un argomento molto importante, quanto delicato, come quello dell’assegno divorzile; in particolare la Suprema Corte di Cassazione ha determinato le linee guida da seguire per la sua assegnazione.

I Giudici, analizzando i motivi di un ricorso, hanno infatti stabilito che per l’accertamento del diritto a ricevere un assegno divorzile, ci si debba basare su dei requisiti molto più rigidi, rispetto a quelli sui quali si basa l’assegnazione dell’assegno di mantenimento (in caso di separazione dei coniugi).

Deve essere, infatti, verificata l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge che lo richiede, raffrontandoli con quelli a sua disposizione durante la vita matrimoniale, e quindi il suo tenore di vita precedente, che sarebbe proseguito in circostanza di matrimonio.

Ma come si desume il tenore di vita precedente?

Sulla base dell’ammontare complessivo dei redditi e delle disponibilità dei coniugi; per determinare l’entità dell’assegno divorzile si calcolano i beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, che sono presi in considerazione ai fini della valutazione della capacità economica del coniuge che dovrebbe versare l’assegno; quindi riassumendo, per determinare la cifra dell’assegno, il Tribunale deve tener conto di determinati fattori:

  • Divario economico tra i coniugi;
  • Tenore di vita durante il matrimonio;
  • Attitudine del coniuge beneficiario a svolgere un lavoro, e tutti gli altri fattori rilevanti.

Quindi, il coniuge che lo richiede, per ottenerlo deve dimostrare di non disporre di mezzi propri adeguati e di non poter procurarseli per ragioni obiettive (ad esempio per inabilità fisiche che gli impediscono di svolgere un lavoro).

L’assegno di divorzio, a differenza di quello di mantenimento (corrisposto durante la separazione), si basa sullo scioglimento definitivo del matrimonio, e la sua finalità è assistenziale, è cioè volto a supportare l’ex coniuge, considerato debole economicamente.

L’assegno divorzile può essere versato mensilmente o, in casi eccezionali, liquidato in un’unica soluzione, con un accertamento del Tribunale verso la somma stabilita.

Quando il coniuge che lo riscuote si risposa perde il diritto a riceverlo, mentre nel caso in cui intraprenda una convivenza no, a meno che non si dimostri un effettivo, significativo e stabile miglioramento delle condizione di vita.

Una recente sentenza, di aprile 2015, ha infatti sancito che viene meno il presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile, nel caso in cui l’ex coniuge instauri una nuova famiglia di fatto; la Suprema Corte ha infatti accolto l’appello del coniuge divorziato obbligato, rigettando la domanda di assegno divorzile, che era stato stabilito essere di mille euro al mese, con decorrenza dal mese successivo a quello della sentenza.

Questa sentenza, che ha avuto grande rilievo a livello nazionale, ha segnato un importante passo avanti nel riconoscimento delle famiglie di fatto.

Disconoscimento del figlio nato da una relazione extraconiugale

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La Corte di Cassazione di Salerno ha confermato questa possibilità di disconoscimento del figlio

Una sentenza che risale ad aprile 2014, della Suprema Corte di Cassazione di Salerno, ha confermato che è possibile il disconoscimento del figlio.

In questo specifico caso si trattava di un figlio nato da una relazione extraconiugale, che il “presunto” padre, separato, ha scoperto solo in seguito essere stata intrapresa da quella che una volta era la moglie.

Sorto il dubbio della paternità, l’uomo si è rivolto al Tribunale per il disconoscimento del figlio, dopo aver anche effettuato degli esami ematologici, che hanno confermato i sospetti riguardo l’adulterio della moglie e del conseguente concepimento extraconiugale.

La legge italiana prevede, infatti, la possibilità di richiedere il disconoscimento di paternità (che nel caso di figli nati all’interno del matrimonio è “presunta”), ma solo in alcuni casi:

  • Mancata convivenza dei coniugi nel periodo compreso tra il 300simo ed il 180simo giorno prima del parto;
  • Se in questo periodo di tempo l’uomo era affetto da impotenza, o incapace di concepire (ad esempio una malattia poi curata);
  • Se la moglie ha avuto una relazione extraconiugale;

In questo caso concreto ci troviamo di fronte all’ultima ipotesi: inizialmente, nel 2006, la domanda dell’uomo è stata però rigettata dal Tribunale, a causa dell’opposizione della madre nell’effettuare i prelievi necessari all’indagine genetica-ematologica, per sé e per il minore.

Sentenza confermata anche in sede d’appello.

L’uomo ha così deciso di procedere con il ricorso presso la Corte di Cassazione, accolto con la sentenza n. 4175 del 2007: è stato rilevato che la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’art. 235 c.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, viene subordinato l’esame delle prove tecniche, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla dimostrazione dell’adulterio della moglie.

Nel maggio del 2010 la corte d’appello di Salerno ha così accolto la domanda di disconoscimento del figlio, ordinando all’Ufficiale dello Stato civile di attribuirgli il cognome della madre.

La questione è tornata di fronte alla Corte di Cassazione, ma questa volta la madre si è lamentata del fatto che, prima della sentenza del 2006, nessuna indagine ematologica era possibile (art. 95 DPR n. 396/2000), e quindi la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare dell’accertamento dell’adulterio; la donna ha anche contestato la violazione dell’art. 394 C.P.C. nonché il vizio di motivazione, affermando che solo dopo la sentenza della Corte costituzionale e delle modifiche apportate dal Legislatore, era consentito proporre la domanda di mantenimento del cognome.

La cassazione ha dichiarato i motivi di ricorso infondati.

E’ stato così possibile il disconoscimento del figlio da parte dell’uomo che ne aveva fatto richiesta.

Se la madre ha disturbi della personalità il figlio minore è adottabile

figlio minore adottabile

Se i genitori non sono in grado di prendersi cura dei figli viene dichiarata l’adottabilità

La madre soffre di un grave disturbo della personalità e il padre è sottoposto a custodia cautelare: il figlio minore è adottabile secondo la sentenza della Corte di Cassazione.

Ancora una volta la Corte di è occupata di questi casi che prevedono la tutela degli interessi del minore, se questo si trova in una situazione familiare, che può essere definita pericolosa per la sua incolumità, mentale e fisica.

In questo caso specifico, già la sentenza del 2012, nella prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, aveva dichiarato legittima l’adozione, a causa delle gravi patologie delle quali soffre la mamma del bambino, e della situazione giudiziaria del padre, sottoposto a custodia cautelare; era stato così nominato un tutore provvisorio e un curatore speciale, disponendo immediatamente la sospensione di ogni contatto tra il minore e i genitori.

Il figlio minore è adottabile, quindi, secondo una prima analisi della situazione, ragion per la quale la madre decide di presentare un ricorso, che però viene respinto dalla Corte, che ribadisce i concetti della prima sentenza; nelle prime valutazioni, infatti, della Corte territoriale, già si evidenziavano gravi problemi psichici della madre: nonostante fosse chiaro il suo amore profondo per i figli, era infatti affetta da un grave disturbo della personalità, come emerso dalle relazioni dei consulenti e dei servizi sociali; in particolare, la donna soffre di un “funzionamento psicologico paranoide, caratterizzato da affetti, impulsi ed idee intollerabili che vengono disconosciuti e attribuiti ad altre persone”.

A causa della malattia ha spunti persecutori, che non le permettono di possedere un minimo di consapevolezza sulle sue criticità e difficoltà personali, tanto che li vive egli stessa come frutto di elementi persecutori, con una conseguente inadeguatezza, alla quale reagisce con dei comportamenti aggressivi, poi rimossi dalla memoria.

Una condizione, questa, logicamente considerata come determinante per la valutazione circa la custodia del bambino; infatti, la grave trascuratezza e la sofferenza psichica avevano determinato nel minore sintomi di stress post traumatico, che rimandavano a episodi di paura, ma anche verosimilmente a episodi di maltrattamenti veri e propri.

Il figlio minore è adottabile quindi per tutte queste ragioni esposte nella sentenza della Corte di Cassazione, del marzo 2014.

Il minore ha diritto a vivere nella propria famiglia biologica, ma il Tribunale, in casi particolari come questo, può dichiarare che il figlio minore è adottabile, se vivere con i propri genitori risulta provocare un “serio pregiudizio” per la sua crescita e la sua salute mentale e psichica.

Devono quindi essere accertate delle situazioni gravi e dannose (come i maltrattamenti, la trascuratezza, l’estrema povertà), che possano compromettere lo sviluppo del bambino.

Se un genitore, malato fisico o psichico, da solo non è in grado di assicurare istruzione, educazione, e cure adeguate al figlio (e non è supportato da nessuno), il Tribunale può dichiarare lo stato di abbandono, e quindi l’adottabilità.

Affido condiviso anche in presenza di un’alta conflittualità tra gli ex coniugi

affido condiviso

Sull’affido condiviso la Corte di Cassazione tutela l’interesse della figlia nel mantenere un rapporto stabile con i genitori

Con una sentenza del marzo 2014 la Corte di Cassazione si è espressa su un caso molto interessante riguardo l’affido condiviso dei figli, anche nell’eventualità di un’alta conflittualità tra gli ex coniugi.

L’affidamento congiunto è stato, infatti concesso, anche se i genitori si trovavano in una situazione nella quale non era affatto presente l’armonia necessaria a trovare degli accordi per quanto riguarda la gestione della prole.

L’affido condiviso è stato disposto dopo che il Tribunale di Firenze ha pronunciato la sentenza di separazione personale dei coniugi, ed aveva anche respinto le domande di addebito reciproche, disponendo le regole per gli incontri tra la figlia e il padre, visto che il domicilio di questa era stato disposto presso la madre; gli incontri dovevano, inizialmente, avvenire tramite l’intervento di un operatore del servizio sociale.

Dopo la prima sentenza, entrambi gli ex coniugi, hanno proposto un appello per richiedere l’affido esclusivo della figlia.

La Corte di Appello di Firenze ha risposto confermando invece l’affido condiviso, aumentando il contributo che il padre è tenuto a versare mensilmente, e con una diversa regolamentazione delle visite, lasciando tutto il resto invariato rispetto alla sentenza di primo grado.

La decisione riguardo l’affido è stata presa considerando che deve essere sempre adottato il provvedimento con riferimento l’interesse esclusivo della prole, quindi, anche se presente un’aspra conflittualità tra i genitori, ciò che conta è che il loro comportamento non vada a porre in serio pericolo il minore, cioè a compromettere il suo equilibrio psico-fisico, in maniera da pregiudicare il suo interesse.

Il nostro ordinamento, infatti, dopo la riforma in merito del 2006, dispone che l’affido condiviso sia la forma da prediligere, per garantire ai figli il diritto alla bi-genitorialità; in questo modo è possibile infatti mantenere i rapporti stabili ed equilibrati con entrambi i genitori, che partecipano alle decisioni di maggiore interesse che li riguardano.

Il Giudice predispone presso quale genitore devono vivere i figli abitualmente, il quale esercita la responsabilità genitoriale a delle condizioni determinate in sede di separazione.

In caso si verifichi un disaccordo tra gli ex coniugi sarà il Giudice ad intervenire; entrambi hanno infatti la possibilità di ricorrere al Tribunale qualora lo ritengano necessario, ad esempio se si ritiene siano state prese delle decisioni pregiudizievoli all’interesse della prole.

Nell’affido condiviso non si parla di “diritto di visita”, come invece accade in quello esclusivo, anche se il Giudice determina modi e tempi per la permanenza dei figli presso ciascun genitore; ad esempio week end lunghi, settimane intere alterne, e se i genitori sono disponibili, anche incontri inframmezzati con l’uno e l’altro.

 

Adottare un minore abbandonato: la legislazione in merito

adottare un minore abbandonato

La Legislazione permette di adottare un minore abbandonato

La Suprema Corte di Cassazione ha esaminato un interessante caso relativo alla possibilità di adottare un minore abbandonato, cioè nel caso in cui i genitori fanno mancare allo stesso l’assistenza morale e materiale, lasciando così il minore in una situazione di totale abbandono.

Sono dichiarati anche d’ufficio in stato di adottabilita’ dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i minori in situazione di abbandono perche’ privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purche’ la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio.

La situazione che permette di adottare un minore abbandonato sussiste, sempre che ricorrano le condizioni di abbandono prima descritte, anche quando i minori siano ricoverati presso istituti di assistenza o si trovino in affidamento familiare.

Non sussiste causa di forza maggiore quando i soggetti rifiutano le misure di sostegno offerte dai servizi locali e tale rifiuto viene ritenuto ingiustificato dal giudice.

La Corte ha ribadito che “il diritto del minore a vivere nel proprio ambiente di origine sussiste fino a che non si verifichi una situazione di abbandono cioè mancanza di assistenza morale e materiale”.

Ciò è scritto nella sentenza relativa a un caso specifico “con motivazione adeguata e non illogica il giudice evidenzia gli abusi sessuali del padre e del fratello sulla minore e l’atteggiamento ambivalente della madre che ha presentato denuncia, ma successivamente ha cercato di minimizzare e ridimensionare il fatto“.

Anche per i giudici di Piazza Cavour, come per quelli territoriali, “il danno subito è enorme“ poichè la minore “presenta un disturbo della condotta depressivo e post-traumatico di grado medio – grave da stress, nonché una sofferenza profonda“.

Inoltre, “non è in grado di reggere incontri con la madre per l’immensa sofferenza e delusione, circa l’incapacità della madre stessa di scegliere da che parte stare”.

Questa situazione permette di adottare il minore abbandonato.

I Giudici di Piazza Cavour infine precisano che “la valutazione della Consulenza spetta al giudice del merito e non è suscettibile di controllo in questa sede, se, come nella specie, è accompagnata da motivazione adeguata e non illogica e scevra da errori di diritto” pertanto, rigettando il ricorso affermano la correttezza della la sentenza impugnata dove si “ravvisa una situazione di abbandono (mancanza di assistenza materiale e morale), una prognosi di irreversibilità e una grave incidenza di tale situazione sullo sviluppo della personalità della minore“. Il sommarsi di queste situazioni fa scattare la possibilità di adottare il minore abbandonato.

Diritto di abitazione nella casa coniugale

Diritto di abitazione nella casa coniugale

Il diritto di abitazione nella casa coniugale dice a chi spetta vivere nella casa coniugale

La Corte di Cassazione ha trattato un caso relativo al diritto di abitazione con preciso riferimento al diritto di abitazione nella casa coniugale.

Più nello specifico, i giudici di Piazza Cavour sono stati interpellati dal ricorrente che lamentava che la Corte d’appello, ritenendo che la sentenza di primo grado non fosse stata impugnata adeguatamente su un punto specifico, quello di chi dovesse vivere in una casa coniugale dopo una separazione e un decesso.

Il quesito, riformulato consisteva nel valutare “Se sia conforme al disposto l’attribuzione del diritto di abitazione al coniuge ancora in vita quando lo stesso sia legalmente separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione successoria”

La Cassazione sul punto del diritto di abitazione nella casa coniugale ha deciso di ritenere fondata la censura poichè “Dagli atti di causa – che questa Corte può direttamente prendere in esame, stante il carattere di errore in procedendo del vizio denunciato: risulta che il ricorrente, nell’adire la Corte d’appello, aveva rivolto alla sentenza del Tribunale critiche precise e pertinenti, sostenendo la tesi che il diritto riservato non compete al coniuge superstite che al momento dell’apertura della successione testamentaria, a seguito di separazione personale, non abita più in quella che era stata la casa coniugale, poiché la norma intende assicurare una continuità di residenza che in tal caso è stata ormai interrotta”: non vi è quindi più diritto di abitazione nella casa coniugale.

I giudici di Piazza Cavour hanno osservato che “la questione, in tali precisi termini, è stata affrontata per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità per quanto consta, solo recentissimamente, con una sentenza che l’ha risolta nel senso propugnato dal ricorrente: si è ritenuto, essenzialmente, che “il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ha come oggetto la casa coniugale, ossia l’immobile che in concreto era adibito a residenza familiare” e “si identifica con l’immobile in cui i coniugi – secondo la loro determinazione convenzionale, assunta in base alle esigenze di entrambi – vivevano insieme stabilmente, organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare”, che “le espressioni usate nel codice non lasciano al riguardo spazi a dubbi interpretativi”, riferendosi “alla casa che dai coniugi era stata adibita a residenza familiare, che “lo scopo della suddetta disposizione è da rinvenire non tanto nella tutela dell’interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell’interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare”, quali “la conservazione della memoria del coniuge scomparso, delle relazioni sociali e degli status simbols goduti durante il matrimonio”; ma “in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione dei diritti in parola”, sicché “l’applicabilità della norma in esame è condizionata all’effettiva esistenza, al momento dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi”. Quindi il diritto di abitazione nella casa coniugale, in questo caso, non è previsto.

Riconciliazione dei coniugi separati legalmente

riconciliazione dei coniugi

La riconciliazione dei coniugi avviene quando i due decidono di tornare insieme dopo la separazione

A volte, anche dopo anni di cause legali e liti furibonde, due ex coniugi magari separati da anni decidono di tornare sui loro passi e di riprendere la convivenza.

A livello giuridico in questo caso si parla di riconciliazione dei coniugi.

Molti si chiedono cosa bisogna fare quando vi è un provvedimento del Tribunale e l’annotazione negli atti dello stato civile riporta l’avvenuta separazione.

In che modo si modifica la cosa a livello burocratico e legale?

La riconciliazione la cui disciplina vigente è contenuta nel codice civile, consiste nel ripristino dell’unione familiare attraverso la ricostituzione non solo della comunione materiale, ma anche di quell’unione spirituale tra i coniugi, che è alla base della convivenza stessa.

Il problema è quello di stabilire in quali casi si può effettivamente parlare di riconciliazione dei coniugi.

Ricominciare ad incontrarsi di frequente, fare un viaggio insieme e per alcuni versi anche tornare a vivere nella medesima abitazione non sono dimostrazioni assolute della volontà di non voler più proseguire la separazione, ma potrebbero configurare anche solo la volontà di conservare un buon rapporto.

Per i giudici è necessario qualche elemento in più per poter parlare di riconciliazione dei coniugi.

Per la Corte di Cassazione la riconciliazione avviene attraverso la ricostituzione del consorzio familiare cioè riprendendo quelle relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti che costituiscono la ricomposizione della comunione coniugale di vita.

Per i giudici ultimi “dopo la separazione la giurisprudenza della Corte ritiene che la cessazione degli effetti della separazione si determina a seguito di riconciliazione, che non può consistere nel mero ripristino della situazione precedente, ma nella ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti”.

Vivere di nuovo sotto lo stesso tetto ma continuare a versare l’assegno per gli alimenti non sarebbe una riconciliazione anzi, per certi versi, si verrebbe a creare una situazione del tutto incompatibile con l’emolumento che è regolato da un provvedimento del giudice.

La riconciliazione dei coniugi riapre questa realtà in siffatta maniera: il rapporto basato sulla solidarietà e sul reciproco obbligo di assistenza, torna ad essere garantito oltre che dalla volontà delle parti dalla norma e non dalla sentenza di separazione che a seguito di ciò cessa di produrre effetti decadendo.

La legge prevede che una nuova separazione possa essere pronunziata soltanto in relazione a fatti e comportamenti nuovi, intervenuti dopo la riconciliazione.

Tale fatto è motivato dal fatto che la riconciliazione implica una seria valutazione della possibilità di ricostituire l’unità familiare sulla base di una rottura accertata ed è necessario far conseguire a tale decisione la irrilevanza di tutto il pregresso e manifestare, ai fini di un’ulteriore sentenza di separazione, che la stessa derivi da comportamenti ed eventi successivi alla riconciliazione.

Mantenimento dei figli maggiorenni

 mantenimento dei figli maggiorenni

Quali sono i doveri dei genitori riguardo al mantenimento dei figli maggiorenni e alla loro istruzione

La Corte di Cassazione esaminando il caso del mantenimento dei figli maggiorenni, studenti universitari e che svolgono dei lavori saltuari.

Il dovere al mantenimento dei figli maggiorenni è sancito innanzitutto dalla Costituzione che impone ad ambedue i genitori l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, non prevedendo alcuna cessazione improvvisa per via del raggiungimento della maggiore età. Non si tratta, tuttavia, di un obbligo che può durare per sempre, ma dalla “durata mutevole” da valutare situazione per situazione.

In base a quanto previsto dal legislatore, l’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni, analogamente all’obbligazione in genere gravante su entrambi i genitori nei confronti della prole, ha un contenuto ampio, tale da ricomprendere sia le spese ordinarie della vita quotidiana che quelle relative all’istruzione e persino quelle per lo svago e le vacanze. È stabilito inoltre, che in caso di separazioni o divorzio, per la determinazione dell’assegno di mantenimento occorre fare riferimento al tenore di vita goduto dai figli in costanza di convivenza con entrambi i genitori, ai tempi di permanenza presso ciascun genitore, alle risorse economiche di entrambi e alle “esigenze attuali del figlio”. In merito, la Cassazione ha stabilito che le stesse mutano in ragione del semplice trascorrere del tempo e giustificano un adeguamento automatico dell’assegno, senza bisogno di specifica dimostrazione. Per quanto riguarda la cifra è stabilito che l’assegno va adeguato, oltre che alla differenza di reddito dei due coniugi separati o divorziati, anche al reddito percepito dai figli come corrispettivo dell’attività lavorativa svolta, aumentando o diminuendo in base al grado di autonomia dai medesimi conseguito.

Se il raggiungimento della maggiore età dei figli non rappresenta la parola fine per l’obbligo dei genitori di contribuire al loro mantenimento, non si tratta neanche di un dovere protratto all’infinito, essendo soggetto al parametro generale del raggiungimento di un’autosufficienza economica tale da provvedere autonomamente alle personali esigenze di vita. La giurisprudenza ha più volte definito i limiti del concetto di indipendenza del figlio maggiorenne, stabilendo che non qualsiasi impiego o reddito (come il lavoro saltuario, ad esempio) fa venir meno l’obbligo del mantenimento, sebbene non sia necessario un lavoro stabile, essendo sufficienti un reddito o il possesso di un patrimonio tali da garantire l’autosufficienza economica. È stabilito anche che affinché venga meno l’obbligo del mantenimento, lo status di indipendenza economica del figlio può considerarsi raggiunto in presenza di un impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua professionalità e un’appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue potenzialità ed aspirazioni. In merito è giurisprudenza acclarata, quella per cui la coltivazione delle aspirazioni del figlio maggiorenne che voglia intraprendere un percorso di studi per il raggiungimento di una migliore posizione e/o carriera lavorativa non fa venir meno il dovere al mantenimento dei figli maggiorenni da parte del genitore.

 

Decorrenza dell’assegno di mantenimento: quando deve essere corrisposto

decorrenza dell'assegno di mantenimento

La decorrenza dell’assegno di mantenimento al coniuge separato o ai figli scatta nel momento in cui viene presentata la domanda

Da quale preciso momento debba scattare la decorrenza dell’assegno di mantenimento per i figli o per il coniuge, è sovente una domanda su cui le parti coinvolte si trovano a discutere e litigare, e che spesso sfocia in liti.

Ci si interroga adducendo esperienze differenti, se debba decorrere dal momento della domanda oppure dall’ordinanza con la quale il Giudice emette i provvedimenti provvisori ed urgenti, tra cui la quantificazione e la periodicità dell’assegno di mantenimento, oppure come sostengono molti dalla sentenza.

L’assegno di mantenimento deve essere corrisposto dal momento della domanda giudiziale,

il coniuge separato ha quindi diritto a ricevere il mantenimento dal momento in cui ne ha fatto richiesta

La Cassazione, dopo aver a lungo compassato la vicenda di un caso che le veniva proposto, ha sentenziato che la decorrenza dell’assegno di mantenimento, allineandosi a una consolidata tradizione già seguita, deve essere versato dal momento in cui è stata proposta la domanda e non da quello della sentenza.

Si aggiunge nella medesima sentenza riguardante la decorrenza dell’assegno di mantenimento poi, che “alla parte che abbia richiesto la corresponsione di un assegno a titolo di contributo per il mantenimento della prole deve essere riconosciuta la facoltà di chiedere un adeguamento del relativo ammontare, non costituendo tale richiesta una domanda nuova”.

I giudici della Corte Suprema aderendo a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimitàà in tema hanno quindi respinto il ricorso presentato da un ex marito sentenziando che “la decorrenza dell’assegno di mantenimento in favore dei figli va fatta risalire di regola alla data della domanda, prescindendo l’obbligo di mantenimento dei figli dalla sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio“

Ne discende che anche nel caso in cui il Tribunale, con la sentenza della separazione o con il decreto con cui vengono emessi i provvedimenti ritenuti urgenti nell’interesse dei figli o con il decreto che omologa le condizioni concordate tra i coniugi, si sia limitato a decidere che l’assegno di mantenimento debba essere corrisposto alla fine o all’inizio di ogni mese e non abbia in maniera chiara ed espressa previsto che tale obbligo sussiste dal momento della proposizione della domanda di separazione, il genitore che deve versarlo è tenuto a rimettere all’ex coniuge l’assegno di mantenimento dal giorno in cui è stata presentata la domanda di separazione.

Per conseguenza logica è legittima la pretesa dell’ex coniuge di reclamare il versamento degli assegni di mantenimento non corrisposti e relativi agli arretrati, ossia al periodo compreso tra il momento in cui la domanda di separazione o divorzio è stata presentata e la data dell’emissione della sentenza o del decreto di omologa della separazione.

Fa eccezione il caso in cui il Tribunale abbia espressamente previsto una data di decorrenza diversa argomentando con ragioni.